Il destino dell’India è scritto nella sua demografia. Quando, a inizio 2023, è stato annunciato che il gigante indiano – che ha assunto proprio quest’anno la presidenza del G20 – avrebbe superato la Cina come Paese più popoloso al mondo, pochi ancora dubitavano sulle prospettive floride che ha di fronte a sé l’economia indiana. Il Paese è nel pieno del suo dividendo demografico, con un’ampia forza lavoro giovane che garantisce alti tassi di sviluppo economico. Una prospettiva estremamente favorevole confermata dalle più recenti stime del Fondo Monetario Internazionale che, nel suo World Economic Outlook di aprile 2023, ha previsto per New Delhi una crescita del 5,9% nel 2023 e un’accelerazione al 6,3% nel 2024. Si tratta della crescita maggiore tra i Paesi del G20, ancora più rilevante se confrontata con i dati relativi alla Cina, la cui crescita è prevista al 5,2% nel 2023 e al 4,5% nel 2024.
Un nuovo polo manifatturiero globale?
Lo scenario è in fase di rapido cambiamento anche grzie all’attivismo del governo centrale che punta sulle infrastrutture come tassello fondamentale del piano Make in India, lanciato nel 2014 e teso ad aumentare la capacità manifatturiera e tecnologica indiana. Un obiettivo ancora più urgente in un momento in cui le maggiori economie del mondo (Cina, Stati Uniti e Unione europea) stanno lanciando poderosi piani di investimento industriale per assicurarsi una posizione di leadership nell’industria del clean e dell’high tech.
In un contesto di riconfigurazione delle catene globali del valore, inoltre, molte aziende – e non solo quelle operanti in settori critici e dell’alta tecnologia – stanno ripensando le proprie strategie, soprattutto nel continente asiatico. Le imprese, in particolare, stanno investendo nella riduzione della propria dipendenza dalla produzione in Cina, guardando a fenomeni quali il re-shoring, il near-shoring, e friend-shoring. In questo quadro, l’India possiede le caratteristiche per attrarre gli investitori: un vsto mercato, una economia in rapida crescita, un’ampia, giovane e conveniente forza lavoro, così come riforme economiche, fiscali e del sistema regolatorio che stanno rendendo il Paese appetibile per potenziali investitori. Vi sono ancora sfide importanti da risolvere, quali un basso tasso di partecipazione nel mercato del lavoro e ridotti livelli di educazione superiore e tecnica, ma i miglioramenti anche in questi campi sono progressivi e costanti. Il Governo indiano, al fine di trasformare il Paese in un polo manifatturiero globale ha introdotto lo schema Production Linked Incentive (PLI), che prevede un supporto governativo pari a 25 miliardi di dollari per lo sviluppo di 14 settori strategici quali veicoli e componenti auto, acciaio, batterie avanzate, pannelli solari, cellulari e componenti elettronici. Come risultato, l’India rappresenta la settima destinazione mondiale per investimenti diretti esteri, con flussi in entrata per circa 55 miliardi di dollari nel 2022.
La sfida inrastrutturale
Per sfruttare appieno il dividendo demografico e sostenere una crescita economica di lungo periodo, l’India ha però ancora bisogno di forti investimenti in capitale umano e soprattutto fisico, in particolar modo in infrastrutture, per colmare un gap che ad oggi è stimato intorno al 5% dell’intero Pil indiano. Lo stesso Logistics performance index della Banca Mondiale, e in particolare l’indicatore che misura la performance delle infrastrutture di trasporto, stima un valore di 2,95 (su una scala tra 0 e 5), tra i più bassi dei Paesi del G20 (ad esempio la Cina ha un valore di 3,75).
La situazione è, tuttavia, in evoluzione. Il governo centrale ha previsto, nell’ambito dell’Union Budget 2023, investimenti infrastrutturali pari a circa il 3,3% del Pil, di cui l’1,7% dedicati alle infrastrutture di trasporto, il doppio di quanto destinato, ad esempio, dai Paesi europei e dagli Stati Uniti. Basti un dato per comprendere la portata dello sforzo finanziario in atto: nell’Unin Budget 2023 circa l’11% dei fondi a disposizione sarà allocato in favore di strade e ferrovie, contro un valore del 2,75% nel biennio 2014-2015. Centrale è la National Logistics Policy, lanciata a settembre 2022 dal governo Modi. Il cui obiettivo è tagliare i costi della logistica all’interno del Paese dal 14% del Pil di oggi all’8% nel 2030: questo rappresenterebbe un risultato fondamentale per ridurre i colli di bottiglia e gli storici ostacoli dell’India al suo pieno sviluppo industriale e manifatturiero. A tal fine, verranno creati 35 nuovi centri multimodali a livello nazionale, con l’obiettivo anche di far entrare, entro il 2030, l’India (oggi 44°) nella classifica dei 25 Paesi con i migliori punteggi nel Logistics Performance Index della Banca Mondiale .
Simbolo di questa trasformazione è anche la poderosa crescita prevista nelle infrastrutture ferroviarie: il governo intende portare il trasporto di merci su rotaia dal 27% di oggi al 45% nel 2030. A tal fine, nel Budget 2023sono stati previsti stanziamenti pari a 29 miliardi di dollari, in crescita esponenziale rispetto ai 18,3 dell’anno precedente. Due nuovi corridoi di trasporti logistici ferroviari – tra Mumbai e New Delhi e tra il Punjab e il Bengala occidentale – sono semi-operativi o saranno completati entro il 2024 e altri quattro sono in fase di progettazione. Ciò permetterà, anche attraverso l’elettrificazione delle linee, maggiori capacità e velocità di spostamento delle merci, e ridurrà il peso sulle linee storiche, con benefici anche per il traffico passeggeri. Il governo Modi intende inoltre espandere l’uso (e, in prospettiva, esportarlo in altri Paesi) del Vande Bharat Express, il treno ad alta velocità indiano, per connettere i maggiori poli urbani del Paese sempre più velocemente e aumentare la competitività dell’industria nazionale, in particolare nel cosiddetto Golden Quadrilateral, che riunisce alcune tra le maggiori città dell’India quali Delhi, Mumbai, Kolkata e Chennai.
Ma non sonosolo le ferrovie al centro dei piani del governo: l’India intende costruire 10.000 km di autostrade l’anno, e la rete autostradale è già passata da 381.000 km del 2014 a 729.000 km di oggi; il numero di aeroporti civili è passato da 74 nel 2014 a 148 quest’anno, con un aumento del traffico passeggeri domestico da 74 milioni del 2014 a 148 milioni nel 2023.
Gli strumenti della trasformazione
Sullo sfondo di questi risultati incoraggianti, c’è quindi da chiedersi quali siano stati gli strumenti che hanno permesso tale trasformazione. Tre sono i pilastri principali su cui si poggia la strategia infrastrutturale indiana e che costituiscono le basi per gli obiettivi di sviluppo industriale del Paese.
Il primo cardine della strategia di sviluppo infrastrutturale dell’India è il programma Gati Shakti, chiamato anche National Master Plan for Multi-modal Connectivity, lanciato nell’agosto 2021 per un valore di 1.200 miliardi di dollari per coordinare gli investimenti infrastrutturali tra Stao federale e Stati federati – nonché tra i diversi ministeri e gli enti locali- e aumentare la competitività e l’attrattività dell’industria indiana. Uno dei problemi fondamentali in India, infatti, è che competenze sovrapposte sulle decisioni relative agli investimenti infrastrutturali tra enti centrali e periferici hanno spesso rallentato o impedito la realizzazione di importanti progetti strategici. Il Gati Shakti mira quindi a ridurre lo spreco di risorse e costruire un network logistico e dei trasporti che connetta porti, aeroporti e cluster industriali attraverso un’adeguata rete di strade e ferrovie. L’obiettivo ambizioso del piano e del governo Modi è quello di portare l’economia indiana – attraverso un ingente piano di investimenti infrastrutturali – a raggiungere i 5 trilioni di dollari entro il 2026, contro i 3,5 trilioni attuali.
All’interno del Gati Shakti rientra la National Infrastructure Pipeline (NIP), un piano di investimenti infrastrutturali misti pubblico-privatoper il periodo 2019-2025, che mira a migliorare la preparazione dei progetti e attrarre maggiori investimenti privati nelle infrastrutture. Ad oggi il NIP ha generato investimenti pari a 1.786 miliardi di dollari.
Il secondo pilastro è il programma Samargala del 2016, che ha l’obiettivo di migliorare le prestazioni del settore portuale e logistico indiano, liberando il pieno potenziale delle coste e delle vie d’acqua dell’India. Quattro sono le direttrici d’azione individuate: modernizzazione dei porti; connettività tra porti e rete ferroviaria e stradale; industrializzazione attraverso l’attività portuale (anche attraverso la creazione di zone economiche speciali); sviluppo delle comunità costiere.
Molto resta ancora da fare sui porti, considerata anche la loro importanza cruciale per l’economia nazionale. I trasporti marittimi rappresentano infatti il 95% del volume dei commerci dell’India e il 65% del valore, attraverso una rete di 12 porti principali e 200 porti secondari. M i risultati, se confrontati a livello internazionale, presentano ancora elementi di deficit. Basti pensare che nel 2020 i porti indiani hanno gestito 17 milioni di TEUs (container), mentre nello stesso anno la Cina ne smistava nei propri porti circa 245 milioni. Solo due porti indiani – il Jawaharlal Nehru Port Trust (JNPT) di Mumbai e il Porto di Mundra nel Gujarat – compaiono nella lista dei 40 maggiori porti container del mondo. Lo stato dei porti indiani è un ostacolo maggiore alle ambizioni di proiezione commerciale e industriale, soprattutto a causa della quasi totale assenza di porti in acque profonde: ad esempio, il maggiore porto indiano, il JNPT manca della profondità di 55 piedi necessaria ad accogliere le mega navi. Ciononostante, negli ultimi cinque anni l’India ha aumentato del 65% la capacità container dei principali porti.
Per rafforzare questa tendenza e al fine di integrare i collegamenti intermodali, sostenere le esportazioni e incrementare la partecipazione dell’ndia nelle catene globali del valore, nel 2021 è stata approvata la Maritime India Vision 2030 (MIV 2030). Il piano da 17 miliardi di dollari intende raggiungere, entro il 2030, un ulteriore aumento della capacità cargo, la creazione di tre nuovi mega porti con capacità di gestione cargo maggiore di 300 milioni di tonnellate annue, un aumento dal 25% al 75% del cargo transhipment gestito dai porti indiani e, infine, la modernizzazione delle infrastrutture portuali e di collegamento. Tra i mega porti previsti spicca la costruzione del Porto Vizhinjam, nel Kerala, con una profondità fino a 80 piedi, in grado quindi di accogliere mega navi.
Infine, il terzo pilastro della strategia infrastrutturale indiana è il Bharatmala, un programma di investimenti da 130 miliardi di dollari finalizzato a migliorare la connettività della rete stradale del Paese, in particolar modo le aree remote alle principali città. Include, in particolare, una revisione dettagliata della rete delle autostrade nazinali (in coordinamento con il programma Samargala) con l’obiettivo di sviluppare la connettività stradale alle aree di confine, lo sviluppo delle strade costiere, compresa la connettività stradale per i porti secondari, il miglioramento dell’efficienza dei corridoi nazionali e lo sviluppo di nuovi corridoi economici. In totale, il programma ha previsto la costruzione di circa 35.000 km di nuove strade.
La partita dell’energia…
Sviluppo economico significa anche grande richiesta di energia. L’India è il terzo maggiore consumatore di energia al mondo, con un consumo annuo di circa 930 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio. Di questi consumi di energia primaria, l’80% è importato dall’estero. Il Paese è anche il terzo al mondo per emissioni di CO2, con numerose pressioni a livello internazionale per una riduzione delle stesse. New Delhi, come annunciato nel 2021 alla UN Climate Change Conference, intende raggiungere la neutralità climatica entro il 2070, diminuire l’intensità crbonica del 45% entro il 2030, aumentare la capacità installata di solare del 50% entro il 2030 (con ulteriori 500 GW installati); ma la strada per raggiungere tali obiettivi richiede ingenti investimenti.
Negli anni recenti, il motore dello sviluppo economico indiano è stata l’energia: circa l’80% dell’energia generata dal Paese proviene infatti da fonti fossili, con il carbone che copre più del 40% del mix energetico, il 25% dal petrolio e il 6% da gas naturale. Meno del 5% del mix energetico primario, invece, è coperto da rinnovabili. Per quanto riguarda l’elettricità, le rinnovabili coprono circa il 40% della capacità elettrica del Paese, con 157 GW installati (48,5 GW di solare, 50 GW di eolico, 51 GW di idroelettrico). Solo 7 GW sono invece generati attraverso il nucleare. La transizione, nel complesso, procede a ritmi sostenuti: nel recente periodo l’aumento della capacità installata di energia rinnovabile è risultato pari ad una media del 17% di aumento annuo. L’economia gree rappresenta un’occasione cruciale di sviluppo economico per l’India: la Agenzia Internazionale dell’Energia (IEA) stima che lo sviluppo di tecnologie low-carbon possa creare un mercato pari a 80 miliardi di dollari annui, con importanti ricadute occupazionali. Gli investimenti necessari, sempre secondo la IEA, sono tuttavia ingenti: per raggiungere l’obiettivo di neutralità carbonica al 2070 sono necessari 160 miliardi di euro all’anno da qui al 2030.
… e dell’idrogeno
Nel quadro dell’importante partita di decarbonizzazione dell’economia indiana un ruolo cruciale, nelle intenzioni del Governo, sarà svolto dall’idrogeno. A gennaio 2023 New Delhi ha annunciato la National Green Hydrogen Mission, un piano da 2,3 miliardi di dollari per rendere l’India un hub globale per la produzione, uso ed export di idrogeno verde e suoi derivati. Il piano mira a promuovere una decarbonizzazione, in primo luogo, dei trasporti terrestri pesanti, marittimi e dell’aviazione, nonché delle industrie enerivore quali l’acciaio e il cemento.
L’obiettivo è di produrre 5 milioni di tonnellate metriche di idrogeno verde entro il 2030, per la domanda interna, per l’energy storage e per l’export, sfruttando l’ipotesi di bassi costi di produzione interna rispetto ad altri competitor internazionali. Si stima che la filiera dell’idrogeno indiana potrà generare investimenti fino a 100 miliardi di dollari, abbattere le emissioni per 50 milioni di tonnellate all’anno e generare fino a 600.000 nuovi posti di lavoro.
Per raggiungere tali obiettivi di produzione, tuttavia, sarà necessario aumentare la capacità industriale nella produzione di elettrolizzatori, creando una filiera industriale nazionale ad hoc. In secondo luogo, per la produzione di idrogeno verde saranno necessari ulteriori 125 GW di capacità rinnovabile, in un contesto già complesso per il raggiungimento dei target rinnovabili. Ulteriori problemi sussistono relativamente alle disponibilità idriche del Paese: l’India è tra gli Statiche soffrono di maggiore stress idrico al mondo, e la produzione di idrogeno verde ne richiede invece ingenti quantità.
Infine, rimane il problema infrastrutturale. Il piano per la creazione di nuove Hydrogen Highways, per l’ammodernamento delle pipelines, dei porti e delle infrastrutture ferroviarie sarà cruciale per il trasporto e l’esportazione dell’idrogeno verde. Per quanto riguarda l’export, centrale sarà la produzione di green ammonia destinata al resto del mondo dai maggiori porti del Paese. Entro il 2025 sarà ad esempio predisposto il primo porto per lo stoccaggio e il trasporto di green ammonia verso i mercati internazionali. Entro il 2035, invece tutti i principali porti del Paese saranno configurati in tal senso.
Piani ambiziosi, ma quali criticità?
Gli ambiziosi obiettivi infrastrutturali indiani trovano coerenza negli obiettivi di medio periodo, che intendono fare dell’India una grande potenza economica, politica e militare. Permangono, tuttavia, nonostante l’imponene sforzo del governo, ostacoli importanti a maggiori investimenti privati che favoriscano una più rapida riduzione del deficit infrastrutturale. Mancanza di coordinamento tra i diversi livelli di governo, qualità mediamente bassa dei progetti proposti, assenza di un efficace sistema giudiziario, lentezza nel processo di autorizzazione dei progetti e di espropriazione dei terreni e bassi tassi di ritorno degli investimenti sono i maggiori elementi che limitano un più ampio coinvolgimento del settore privato, soprattutto estero, negli sforzi infrastrutturali. La National Infrastructure Pipeline è un primo passo, ma nuovi strumenti e riforme per ridurre il rischio percepito per l’investitore privato e attrarre maggiori flussi di investimento sono necessari e urgenti, anche alla luce del declino generale degli investimenti privati nel Paese, passati dal 22% del 2019-2020, rispetto al 31% del 2010-2011.
Infine, gli investimenti infrastrutturali sono anche e sempre di più una scelta geopoltica. Spetta quindi all’India, presidente di turno del G20, decidere se fare una scelta di campo e avvicinarsi ai principali piani occidentali, come previsto in ambito QUAD o nel caso del G7 Partnership for Global Infrastructure Investment, oppure mantenere una studiata neutralità.